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Note drammaturgiche


Trovare un titolo come Sugnu o non sugnu è stato un caso: dopo aver cercato tra monologhi, citazioni, brani in cui Shakespeare sintetizza in modo a volte tragico, a volte comico la natura umana, Sugnu o non sugnu è arrivato come apoteosi di una ricerca che doveva coniugare, per me, tantissime cose: non solo e non tanto la traduzione fin troppo scontata di “Essere o non essere”, ma anche la dimensione di una coppia non qualunque in un quotidiano qualunque, il teatro con le sue eterne problematiche come la solitudine dell’autore e l’ovattato e finto atteggiamento che spesso lo circonda. E poi le origini di William.

Come ormai ben sappiamo, le origini di Shakespeare sono cosa difficile da ricostruire. E come sostengono alcuni illuminati, per la verità la cosa è di poca rilevanza. A patto di non sostenerlo con gli accademici inglesi, che ovviamente difendono la tesi tradizionale come unica possibile (e ne hanno ben ragione!). Al di là della legittima intransigenza inglese, vero è che Shakespeare è Shakespeare chiunque sia stato veramente, ovunque sia nato, uno, trino o molteplice che sia stato. A quel punto mi è sembrato che ogni possibilità fosse percorribile. E allora?

Allora, immaginiamo che un certo Michelangelo Florio nasca a Messina, nella Sicilia spagnola e cattolica assillata dall’Inquisizione: avendo un papà calvinista praticante deve fuggire con la sua famiglia per non cadere vittima delle torture inflitte dal sistema. Michelangelo, così, comincia un’odissea che lo costringe a girare larga parte d’Italia (Treviso, Venezia, Padova e Mantova) ma anche Danimarca e Austria. Poi, alla fine, l’Inghilterra. Ove approda probabilmente raccomandato alle alte sfere da una lettera di Giordano Bruno. Da Messina Michelangelo porta con sé le tradizioni, gli umori, la cultura ed i profumi della Sicilia. Essendo comunque prudente celare le sue origini, Michelangelo Florio assume il nome di William Shakespeare, traducendo alla lettera il nome di sua madre Guglielma Crollalanza. Sugnu o non sugnu è dunque l’isola come metafora, Granchio, il cane di Proteone da I due Gentiluomini di Verona è sinossi di una ricerca inappagata, vissuta con la leggerezza di cui l’isola è proverbialmente capace.

E poi c’è Anne. Anne Hathaway, inglese purosangue, che a ventisei anni sposa un siciliano,focoso quanto lei e più giovane di otto anni. Partiamo da qui.

Anne è donna che non ha mezzi termini, si infuria perché Michelangelo ha messo in scena, trasfigurandola, tutta la loro vita; chissà se poi ha davvero ragione di essere così arrabbiata con lui, considerato che contribuisce da subito al successo di Michelangelo, aiutandolo, i primi tempi, a tradurre in inglese, nella consapevolezza di rimanere l’unico punto fermo della sua vita.

Lo attende sempre, Anne; i tre figli – che presto rimarranno tragicamente due - la costringono man mano a soggiornare più a lungo a Stratford, dove William-Michelangelo appare e scompare continuamente; ma Anne ne comprende il genio, sa che potrà-dovrà sempre scontrarsi con lui. Anne ama il sesso e non ne fa mistero, Anne ha un temperamento forte, non le manda a dire a nessuno. Ma a poco i suoi strali servono per quel bambino viziato e bugiardo che il grande genio si rivela essere nella vita privata.

Coppia qualunque-non qualunque, dicevo: Anne e William-Michelangelo, ormai ultraquarantenni (e dunque, per l’epoca, anziani) passano le loro giornate nella casa di Stratford, ogni notte intenti a ripetere più o meno le stesse cose: William-Michelangelo si dedica alla riscossione degli affitti dei suoi ormai numerosi possedimenti e si dà ad un improbabile giardinaggio,nel tentativo di coltivare le sue piante di gelsomino e di zagara (e persino una sfortunata pianta di ficodindia) nel gelido clima di Stratford. Anne tenta di vincere l’acquisita pigrizia del marito perché riprenda in mano quella penna che non scrive nulla da più di tre anni, lo rintuzza, lo stimola ad una voglia che lui ha perso, lo lavora ai fianchi, non gli toglie mai attenzione… È ovvio, ormai, che l’uno trova l’ispirazione dell’esistere solo dalla presenza dell’altro.

Ciò che infatti rende non qualunque una coppia come Anne e William-Michelangelo è che la loro vita si intreccia talmente con le opere che diventa difficile operare una scissione tra le due. E così una frase passata alla storia diventa il modo per esprimere un problema del quotidiano. Impossibile, per i due, parlare di qualsiasi cosa senza, involontariamente, citare Macbeth, Cleopatra, Amleto, Costanza e tutti i personaggi maggiori e minori delle commedie e tragedie.

Scrivendo e riscrivendo, mi sono preoccupata di alcune cose. In primis, del fatto che non tutti gli spettatori sarebbero riusciti a cogliere la fonte delle tante citazioni, finendo per perdere il gusto fruibile solo a chi conosce a menadito le opere dell’autore. Sicché ho tentato di aiutare lo spettatore, ma non aggiungo altro.

In secondo luogo, la sicilianità di William-Michelangelo doveva amalgamarsi con il resto dei contenuti ed ho preferito mantenerla entro limiti accettabili. In pratica, volevo che lo spettatore fosse divertito ed accarezzato dall’idea, come mi sono divertita io ad immaginarlo.

La regia di Nicola Alberto Orofino ha aggiunto ancora un altro piano al lavoro autorale. Posso solo dirvi che ci siamo divertiti molto.

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